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Il rientro al lavoro del dipendente positivo al COVID di lungo termine
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Il rientro al lavoro del dipendente positivo al COVID di lungo termine

Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale

Al fine di inquadrare la tematica in oggetto, corre preliminarmente ricordare come, ai sensi dell’art. 2087 c.c., grava sul datore di lavoro l’onere di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Alla stregua di detta disposizione codicistica, l’imprenditore, n.q. di responsabile della sicurezza, è tenuto a valutare e prevenire i rischi dell’attività lavorativa che viene svolta, nonché a controllare la concreta applicazione delle misure da esso adottate.
Come noto, in tale contesto pandemico, la portata prescrittiva dell’art. 2087 c.c. è stata demandata all’attuazione dei protocolli di sicurezza sottoscritti tra le parti sociali, i quali sono equiparati alla fonte legislativa sin dal Decreto Legge n. 33/2020, il quale dispone che “le attività economiche, produttive e sociali devono svolgersi nel rispetto dei contenuti di protocolli”, prevedendo in caso di mancata ottemperanza finanche la sospensione dell’attività espletata.
Successivamente, ancor più esplicitamente, il legislatore, nel convertire in legge il Decreto n. 23 del 8 aprile 2020, ha introdotto il nuovo art. 29-bis, con cui ha sancito che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro
Pertanto, l’imprenditore, in caso di contrazione del virus da parte di un proprio dipendente, risulterà esente da responsabilità ove dimostri di aver rispettato le misure di cui al “Protocollo Condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 marzo 2020, aggiornato in data 24 aprile u.s., il quale, per gli ambiti sanitari, va integrato con il protocollo del 24 marzo.
Con particolare riferimento al rientro sul lavoro del dipendente che ha contratto il COVID-19, il cennato protocollo dispone che “L’ingresso in azienda di lavoratori già risultati positivi all'infezione da COVID 19 dovrà essere preceduto da una preventiva comunicazione avente ad oggetto la certificazione medica da cui risulti la “avvenuta negativizzazione” del tampone secondo le modalità previste e rilasciata dal dipartimento di prevenzione territoriale di competenza”.
In tale contesto è intervenuto il Ministero della Salute con la Circolare n. 32850/2020 in cui si è soffermato sul rientro in comunità dei cd. positivi long term, ovvero coloro che, dopo 21 giorni dalla contrazione del virus, continuano a risultare positivi al test molecolare.
In particolare, il Dicastero ha sancito che “in caso di assenza di sintomatologia (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e anosmia che possono perdurare per diverso tempo dopo la guarigione) da almeno una settimana, potranno interrompere l’isolamento dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi. Questo criterio potrà essere modulato dalle autorità sanitarie d’intesa con esperti clinici e microbiologi/virologi, tenendo conto dello stato immunitario delle persone interessate (nei pazienti immunodepressi il periodo di contagiosità può essere prolungato)”.
In altre parole, con la richiamata Circolare, il Ministero della Salute ha statuito che un soggetto positivo al COVID-19, dopo 21 giorni dalla contrazione del virus e in assenza di sintomatologia nell’ultima settimana, può interrompere l’isolamento fiduciario.
Tuttavia, tale disposizione si pone in contrasto con la disposizione di cui ai cennati protocolli, da ultimo richiamati nel DPCM del 03 novembre 2020 che, all’allegato 12, li riporta integralmente.
Pertanto, un lavoratore che ha contratto il COVID-19, ove abbia i requisiti di cui alla richiamata Circolare del Ministero della Salute, non sarà più considerato in malattia, ma, alla stregua dei protocolli per la sicurezza, non potrà essere riammesso in servizio fino “all’avvenuta negativizzazione del tampone.
Orbene, tale contrasto crea una grave criticità nel sistema lavoro, atteso che il dipendente non potrà accedere alla tutela previdenziale della malattia erogata dall’INPS, né essere riammesso in servizio.
Seppur risulta evidente che il problema debba essere risolto dal Legislatore nazionale, sono diverse Su tale argomento, la Regione Toscana con la nota del 09.12.2020, riconoscendo la superiorità gerarchica dei Protocolli rispetto la Circolare del Ministero, ha invitato i Medici di Medicina Generale a modificare la dicitura presente sul certificato rilasciato all’esito del decorso dei 21 giorni senza sintomi “facendo genericamente riferimento alla fine dell’isolamento e togliendo il riferimento all’avvenuta guarigione”, al fine di “attenuare lo stato di difficoltà in cui si vengono a trovare i molti lavoratori che risultano casi positivi a lungo termine” e facilitare i Medici nella prescrizione dei tamponi.
Pertanto, in attesa di un intervento legislativo sul punto, nel periodo fra la scadenza de 21 giorni e l’avvenuta negativizzazione dell’operatore, se non vi è la possibilità di certificare la malattia, l’azienda potrà sopperire con istituti quali i congedi ordinari.
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