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L’illegittima risoluzione del rapporto e l’indennità
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L’illegittima risoluzione del rapporto e l’indennità

Le prime applicazioni dei giudici di merito della Sentenza 194/2018 della Corte Costituzionale.

Sonia Gallozzi, Consulente giuslavorista della Sede nazionale

Il presente articolo è finalizzato ad offrire un quadro sull’indennità dovuta al lavoratore nel caso in cui intervenga una declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato. Sul tema, in primo luogo, dispone il Jobs act, così come modificato dalla l. 96/2018 (legge di conversione del decreto dignità) che, in presenza di licenziamento illegittimo, salvo casi estremamente residuali di applicazione della reintegra, condannava il datore di lavoro a pagare un’indennità risarcitoria in misura fissa e predeterminata pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, partendo da un minimo di 6 (sei) e fino ad un massimo di 36 (trentasei) mensilità.
La Legge 96 del 2018, nell’aumentare della metà la soglia minima e massima del risarcimento, non ha, però, alterato lo schema logico della tutela economica offerta al lavoratore illegittimamente licenziato, costituito da un’indennità crescente sulla base del solo dato dell’anzianità di servizio.
In tale contesto, è intervenuta la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 della Corte Costituzionale che ha scardinato il meccanismo delle tutele crescenti, eliminando il parametro delle due mensilità di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, quale esclusiva unità di misurazione dell’indennità per licenziamento illegittimo.
Invero, la Consulta ha dichiarato incostituzionale tale disciplina, ritenendo la previsione di un meccanismo risarcitorio ancorato unicamente sugli anni di servizio contrario ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza, concludendo che, nell’ambito dei cennati limiti minimi e massimi, il giudice deve essere chiamato a determinare l’entità del risarcimento sulla base di parametri aggiuntivi, quali i livelli occupazionali, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
I Giudici di merito, dunque, hanno trovato un rinnovato spazio nel determinare la misura del risarcimento, con risultati non sempre omogenei ed inevitabili ricadute per le imprese in termini di incertezza sulle conseguenze economiche di un licenziamento impugnato in giudizio.
E così: applicando la pronuncia costituzionale, il Tribunale di Genova, con ordinanza del 21 novembre 2018, ha liquidato a una dipendente giornalista illegittimamente licenziata l’indennità nella misura massima prevista dal D.Lgs. 23/2015 per le piccole imprese (sei mensilità). Per determinare l’entità del ristoro patrimoniale, il Tribunale si è specificamente affidato, a prescindere dall’anzianità aziendale, alle elevate competenze professionali della lavoratrice ed alle gravi violazioni che hanno accompagnato il recesso, osservando come le condizioni e il comportamento delle parti acquisiscano un ruolo centrale nella determinazione del risarcimento dovuto in applicazione delle tutele crescenti.
Altro esempio di applicazione dei cennati principi è rappresentato dalla sentenza n. 43328 del 10 ottobre 2018, con cui il Tribunale di Bari, sulla scorta del solo dispositivo della Corte Costituzionale, ha dichiarato illegittimo un licenziamento e condannato l’impresa a versare un indennizzo di 12 mensilità ad un lavoratore assunto con il contratto a tutele crescenti, in luogo delle 4 che gli sarebbero spettate in ragione della sua anzianità di servizio. Invero, seguendo un’interpretazione conforme alla Costituzione, il Giudice ha ritenuto di dover considerare anche altri elementi per quantificare il danno subito dal lavoratore e, in particolare, la gravità del comportamento datoriale.
Alla luce dell’analisi effettuata, appare di tutta evidenza come la fine della predeterminazione del risarcimento solo sulla base dell’anzianità renda difficile preventivare il costo di un contenzioso e che sia, altresì, passibile di condizionare le scelte dei lavoratori, in quanto eventuali conciliazioni risulterebbero meno appetibili rispetto a quanto potrebbe essere ottenuto giudizialmente, tenuto conto che tutti i lavoratori a tutele crescenti hanno una bassa anzianità, essendo la norma entrata in vigore il 7 marzo 2015.

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